Ansa/ROMA – Quando a pochi minuti dalla fine di un non memorabile Brescia-Roma del 28 marzo 1993 Vujadin Boskov sostituì Ruggero Rizzitelli con un biondino chiamato Francesco Totti, l’Italia era in piena fase di disaffezione dalla politica. Venti anni dopo, oltre alla crisi dei partiti (altri, però), del Paese che era resta Francesco Totti. Al posto della lira si conia l’euro, la mail da un pezzo ha costretto le Poste a cambiare ragione sociale e da Roma a Milano in treno ormai si va nel tempo che prima occorreva per arrivare a Firenze: il biondino invece resiste nonostante le ingiurie del tempo e i calci presi.
È diventato un campione conosciuto in tutto il mondo, metafora di Roma persino più di Alberto Sordi: con le sue giocate ha regalato sogni, con le sue barzellette sorrisi. I tifosi di calcio ne sono conquistati, quelli giallorossi lo venerano: “Venti anni d’amore, capitano di un’era…Totti unica bandiera”, lo striscione appeso giorni fa fuori Trigoria lo spiega alla perfezione. Totti è un’immagine appesa in migliaia di balconi e di pareti, è quel ‘murale’ al rione Monti, a due passi dalla Madonna che veglia sul quartiere e dal Colosseo, è la rivincita di un popolo povero di trofei ma ricco di passione. È il campione trasformatosi da Pupone in Gladiatore a forza di colpi di tacco, ‘cucchiai’ e gol spettacolari, e il ragazzo un po’ indolente e sfrontato diventato un concentrato di tecnica al servizio della squadra, un professionista inappuntabile che a quasi 37 anni corre, segna e risulta decisivo al punto che se ne invoca il ritorno in azzurro per il Mondiale in Brasile.
Totti comincia a diventare la Roma quel 28 marzo 1993, e quando segna il primo dei suoi 226 gol in serie A, il 4 settembre del ’94, Roma-Foggia 1-1, (sinistro rasoterra con esultanza studiata a casa con il fratello Riccardo), il suo attuale compagno di squadra Alessio Romagnoli che, pur giocando da difensore, sembra il suo erede designato come fenomeno per sempre giallorosso non era ancora nato.
Totti è il campione che, nemmeno ventenne, è già punto di riferimento per la squadra, segna ancora poco ma si fa già valere giocando con la maglia n. 20 (con cui farà faville qualche anno dopo nell’Europeo del 2000 in nazionale). All’inizio della stagione 1996-1997 alla Roma arriva un tecnico che non lo capisce. Carlos Bianchi è argentino e crede senza porsi dubbi a chi gli racconta che i romani sono pigri: definisce il ragazzo “un giocatore normale”. Vorrebbe che fosse ceduto a gennaio alla Sampdoria, ma Totti si impunta in campo e fuori e prima di fine stagione sarà l’allenatore a fare le valigie. Poi verranno Zdenek Zeman, di cui Totti calcisticamente si innamora, e la maglia numero 10 mai più lasciata, oltre a un ruolo da insostituibile terminale offensivo. Fabio Capello gli regalerà un altro po’ di diffidenza e lo scudetto del 2001, con la città impazzita per una settimana e Totti che benedice il popolo romanista dal Circo Massimo. È sempre Totti l’uomo che, segnando al Bernabeu, farà vincere una squadra italiana sul campo del Real Madrid dopo 35 anni. Nel 2006, nonostante il più serio dei suoi tanti infortuni qualche mese prima faccia temere per il prosieguo della sua carriera, diventa campione del mondo con l’Italia di Lippi, con la maglia del suo club vince anche una Scarpa d’Oro. Ma più di tutti avrebbe meritato di diventare il primo calciatore a vincere due scudetti con la maglia della Roma. Per questo gli bruciano ancora le delusioni di quei tricolori sfumati all’ultimo momento o buttati via, nel 2002, 2008 e 2010. Per sanare la questione non gli rimane che giocare fino a 40 anni, magari facendo un salto in Brasile con gli azzurri nel 2014: nel paese del calcio uno come lui potrebbe lasciare il segno.