Ansa – Per Giulio Andreotti niente camera ardente al Senato ma nella sua amatissima casa-studio di Corso Vittorio e funerali privati presso la Chiesa di san Giovanni dei Fiorentini a Roma. Lo hanno reso noto i suoi più stretti parenti. Le esequie sono previste per martedì pomeriggio.
Giulio Andreotti si è spento questo lunedì 6 maggio nella sua abitazione romana alle 12 e 25. Il ‘Divo Giulio’ aveva 94 anni, essendo nato il 14 gennaio del 1919. Politico longevissimo, sulla scena politica da più tempo della regina Elisabetta. E’ stato l’uomo di governo e di partito italiano più blasonato, sette volte alla guida dell’esecutivo, uno dei leader democristiani più votati; ma per i suoi nemici e detrattori era “Belzebù”, circondato da una fama di politico cinico e machiavellico che lui stesso, in fondo, amava coltivare. In più di mezzo secolo di vita pubblica, più di ogni altro governante, Giulio Andreotti è stato identificato come l’emblema di un potere che nasce e si alimenta nelle zone d’ombra. Quando Buscetta raccontò la storia del bacio a Totò Riina i colpevolisti erano di gran lunga più numerosi. Si illudevano: Andreotti, passato dall’altare alla polvere nel giro di poche ore, sfidò i giudici andando a tutte le udienze del processo che lo vedeva imputato, la testa china sui suoi appunti, contestando l’accusa fino alla sentenza definitiva di assoluzione. “Nel 1919 sono nati il Ppi di Sturzo, il fascismo e io. Di tutti e tre sono rimasto solo io”, si gloriava ultimamente. Da giovane, era un ragazzo religioso, studioso, molto serio, la schiena già lievemente incurvata e le idee chiare sul suo futuro. Unici divertimenti le partite della Roma (al vecchio stadio di Testaccio) e le corse dei cavalli all’ippodromo delle Capannelle. Si dice che fu il Papa in persona, Pio XII, a volerlo alla presidenza della Fuci , l’organizzazione degli universitari cattolici, al posto di Aldo Moro.
Dopo pochi anni si ritrovò catapultato nelle stanze dei bottoni grazie all’ottima impressione che aveva fatto al leder dela Dc Alcide De Gasperi. Nel 1946, a 28 anni, era già sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con una delega particolare per lo spettacolo. La “legge Andreotti” del 1949 servì a finanziare il cinema italiano. Di quegli anni si ricorda la polemica con Vittorio De Sica, accusato dal giovane sottosegretario di aver reso “un pessimo servizio all’Italia” con il suo pessimistico film “Umberto D”. Ma l’ambizione lo spingeva verso altri palcoscenici. Nel 1954 fece il salto e diventò ministro. Il suo feudo elettorale era la campagna a sud di Roma, da dove proveniva la sua famiglia: Fiuggi, Anagni, Alatri, antichi possedimenti delle nobili famiglie capitoline, diventarono centri della sua rete elettorale e clientelare. Politicamente rappresentava l’ala più conservatrice e clericale della Dc, i suoi avversari interni erano i fautori del centrosinistra, come Moro e Fanfani. Ottime le sue entrature in Vaticano, estesissima la sua rete di contatti internazionali.
Fu nel 1972 che riuscì ad arrivare alla presidenza del Consiglio. Lo scelsero con scarsa convinzione, per dar vita a un governo di centro dalle scarse prospettive. E infatti fu il governo più breve della storia repubblicana: solo 9 giorni, dalla fiducia alle dimissioni. Ma il nostro non si scoraggiò. Già allora sapeva che “il potere logora chi non ce l’ha” e che “a pensare male si fa peccato ma di solito ci si indovina”. Queste due massime rappresentano la sintesi perfetta del pensiero politico andreottiano e sono ormai espressioni comuni. Per una di quelle curiose alchimie della politica che caratterizzavano la prima repubblica, fu lui, l’uomo della destra Dc, a essere chiamato a guidare i governi di solidarietà nazionale, alla fine degli anni settanta, con l’appoggio esterno del Pci. I leader della Dc avevano capito quale era la sua più grande dote: conciliare gli opposti, smussare gli angoli, digerire le difficoltà. Emblematico il suo rapporto con Craxi. Il leader socialista non lo vedeva di buon occhio e fui lui a coniare il soprannome di Belzebù. Andreotti era “la volpe che finirà in pellicceria”. Ma qualche anno dopo dopo, di nuovo a Palazzo Chigi, Andreotti strinse un patto di ferro proprio con Craxi : erano gli anni del “caf” (dalle iniziali di Craxi , Andreotti e Forlani) e l’opposizione di sinistra lo considerava come il peggio del peggio della politica italiana. Il film “Il Divo” di Sorrentino lo ritrae come responsabile o complice di mille nefandezze. Lui stava per querelare, ma poi preferì lasciar correre: era più andreottiano così: forse anche perché, altra sua perla di cinica saggezza, “una smentita è una notizia data due volte…”.
Le mete mancate, da segreteria Dc al Colle
Quirinale, segreteria della Dc, presidenza del Senato. Nella lunghissima carriera politica di Giulio Andreotti, sette volte presidente del consiglio, 21 volte ministro, sono queste le tre grandi “incompiute”. E dire che, soprattutto per il Colle, il senatore a vita avrebbe fatto di tutto per arrivare alla meta. L’occasione buona la ebbe nel 1992, quando si trattava di decidere il successore di Francesco Cossiga. Nei giorni travagliati di quell’estate, già segnata dai primi bagliori di tangentopoli, Andreotti, allora presidente del consiglio, da Palazzo Chigi, tesseva le fila della sua scalata all’ambita poltrona quirinalizia , cercando alleanze a tutto campo. Ne nacque una lotta sotto traccia con l’altro pretendente di Piazza del Gesù, il segretario Arnaldo Forlani. Il 13 maggio erano cominciate le votazioni e la Dc ancora non aveva un suo candidato. Il giorno seguente, Forlani andò a trovare Andreotti a Palazzo Chigi. Fino a quel momento i due avevano fatto pretattica, indicandosi l’un l’altro come il candidato ideale. Quella mattina, Forlani, non si sa quanto sinceramente, disse ad Andreotti che lui si faceva da parte e che gli lasciava campo libero. Gli andreottiani presero per buono l’annuncio e immediatamente si misero al lavoro per il loro leader. Ma, tempo tre quarti d’ora, il telefono di palazzo Chigi si mise a squillare.Era Enzo Scotti (allora uno dei capi del “grande centro” democristiano. “Mi dispiace, ma il nostro candidato è Forlani”, disse seccamente a Paolo Cirino Pomicino, dall’altra parte del filo. Vittima dei giochi di corrente della balena bianca, Andreotti servì a Forlani una fredda vendetta. Prima, nella riunione dei gruppi parlamentari che doveva ratificare la candidatura di Forlani, anche gli andreottiani votarono a favore del segretario della dc; poi, però, il pomeriggio del 16 maggio, il gruppo dei fedelissimi di Giulio impallinarono Forlani, al quale fecero mancare 34 decisivi voti. Per la segreteria del partito, invece, Andreotti non ebbe mai la possibilità di candidarsi per davvero, non avendo mai goduto dell’appoggio degli altri leader del partito. Con Fanfani c’era stata rivalità, con Moro incomprensione, con De Mita aperta ostilità. Andreotti si è dovuto accontentare di essere un “king maker”, favorendo le ascese e cadute dei vari segretari democristiani: Zaccagnini al posto di Fanfani nel ’75, Piccoli al posto di Zaccagnini nell’80, Forlani al posto di De Mita nel 1989.
Ma per lui, l’eterno Giulio, nessuno mai propose la segreteria dello scudo crociato. Altro “fiasco” andreottiano, la presidenza del Senato. Candidato dal centrodestra contro Franco Marini nel 2006, Andreotti perse la sfida contro il suo ex compagno di partito nella democrazia cristiana, che, dopo qualche tribolazione, riuscì ad assicurarsi il pieno dei voti della coalizione del centrosinistra. Come contentino, Andreotti poté salire sullo scranno più alto di Palazzo Madama all’inizio della precedente legislatura: presiedette la seduta inaugurale come senatore anziano, dopo le rinunce di Oscar Luigi Scalfaro e Rita Levi Montalcini.