Promossa dai Ministeri dello Sviluppo Economico, degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale e delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, e organizzata dall’ICE-Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, con la collaborazione di Confindustria, ABI, RETE Imprese Italia, Alleanza delle Cooperative e Unioncamere, si è svolta, nella settimana del 23 marzo, “L’Italia a Tavola”, la «più grande missione di aziende italiane del settore agroalimentare (vini compresi) in terra canadese», come l’ha definita Pasquale Bova, direttore della Delegazione commerciale d’Italia in Canada (ICE).
Presenti, nelle tre tappe della missione – Toronto, Montreal e Vancouver – oltre che alcuni rappresentanti del mondo bancario italiano, 45 aziende agroalimentari e 20 aziende vinicole (ce ne sarebbero state sicuramente di più se non vi fosse stato, contemporaneamente, il “Vinitaly” di Verona, il più grande salone internazionale del vino che si svolge in Italia), venute a presentare e a far degustare i loro prodotti agli operatori canadesi del settore, in vista di possibili sbocchi commerciali sul vasto mercato locale.
Il Canada ha un’importante tradizione di partner commerciale, in campo agroalimentare, dell’Italia, grazie anche alla consistente comunità di origine italiana che, nel corso degli anni ha contribuito ad introdurre nel paese un’intera gamma di prodotti alimentari della tradizione italiana che hanno acquisito mercato nel Paese.
L’agroalimentare italiano riveste una particolare importanza, rappresentando oltre il 16% del totale esportato e rimane senza dubbio una costante affidabile delle nostre esportazioni. Nel corso del 2014, l’esportazione dell’agroalimentare “Made in Italy” ha confermato un trend di crescita positivo ed ha raggiunto quota 1 miliardo di dollari canadesi, con un aumento del 6,6% rispetto al 2013, collocando così il nostro paese al quarto posto dei paesi fornitori, immediatamente dopo USA, Messico e Cina e prima della Francia. L’Italia è quindi il primo fornitore del Canada di prodotti agroalimentari della UE28. (aise)
Il Corriere Italiano ha chiesto al direttore della Delegazione commerciale d’Italia in Canada (ICE) Pasquale Bova, di illustrare lo stato dei rapporti commerciali tra i due Paesi nell’ambito del settore agroalimentare e di parlare degli obiettivi di questa missione.
Dott. Bova, qual è l’obiettivo di questa inziativa?
«In un momento in cui l’agroalimentare italiano vive un periodo di successo in tutto il mondo, l’obiettivo di questa iniziativa – ha spiegato Pasquale Bova (nella foto) – è stato quello di portare più aziende italiane possibili in Canada, un paese che in questo senso è “fertile e ricettivo” sia perché ci sono tanti italo-canadesi che vivono in Canada e che consumano e usano prodotti italiani, sia perché ormai il vino e il cibo italiani non rappresentano più una “dieta etnica”, di nicchia, ma una “dieta” che interessa tutti.
Il momento poi ci è sembrato particolarmente propizio considerando gli eventuali spazi che si stanno aprendo e potranno aprirsi con la definizione degli acccordi di libero scambio tra Unione Europea e Canada (CETA). Ci sembrava dunque importante cercare di prevenire i cambiamenti e di portare qui nuove aziende che potessero presentare i loro prodotti e stabilire contatti».
Quali sono i principali problemi che si incontrano per esportare l’agroalimentare italiano in Canada?
«A parte i soliti problemi di norme restrittive imposte dalle varie Commissioni o Società provinciali dei vini e dei liquori o la restrizione delle quote d’importazione dei formaggi, che però con l’accordo CETA dovrebbero aumentare passando da 13 a 17 mila tonnellate, e a parte i problemi relativi alle importazioni di carni che comunque si stanno piano piano risolvendo, il vero problema è che ci sono una marea di produzioni americane, argentine, brasiliane, turche, e anche canadesi, che mettono sul mercato prodotti che non sono propriamente italiani anche se dal nome o da altro lo sembrano. È il cosiddetto fenomeno dell’ “Italian sounding” ovvero l’utilizzo di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano l’Italia per promuovere e commercializzare prodotti che non sono invece riconducibili al nostro Paese.
In questi prodotti locali dal “suono” italiano è difficile trovare le stesse qualità organolettiche, gli stessi procedimenti di produzione, le stesse norme sanitarie dei prodotti italiani. In Italia, ad esempio, nei formaggi è vietato aggiungere qualsiasi additivo o conservante, in altri paesi no. Il Parmigiano Reggiano è un formaggio di altissima qualità, ci vogliono mesi ed anni per farlo e viene fatto rispettando norme ben precise; le “forme” di Parmigiano che non rispondono a determinati standard organolettici vengono scartate. Non credo che nel cosiddetto “Parmesan”, invece, si riscontrino la stessa cura e la stessa attenzione che i nostri produttori mettono nel fare il vero Parmigiano Reggiano.
Tali prodotti, che d’italiano hanno solo un nome, producono un danno enorme alle nostre esportazioni; si calcola che il rapporto di “contraffazione” è di uno a tre, cioè per ogni prodotto italiano autentico ne vengono prodotti tre non autentici (N.d.r.: a livello mondiale, secondo i dati forniti dal Ministero delle Sviluppo Economico, il giro d’affari annuo dell’”Italian Sounding” è stimato in circa 54 miliardi di euro l’anno”). Certo, la scelta appartiene sempre al consumatore. A volte il consumatore dice: preferisco comprare qualcos’altro, costa di meno, non ha lo stesso sapore ma non mi interessa. A volte, invece, il consumatore è preso in giro perché pensa di comprare un prodotto italiano e poi scopre che d’italiano, invece, c’è solo il nome!
Faccio un altro esempio. Per fare un buon prosciutto bisogna avere, per legge, tre cose, ma io ne aggiungo una quarta: l’aria delle montagne italiane, il maiale e il sale. Basta; niente nitrati e nient’altro. La quarta cosa è la capacità di farlo secondo le nostre tradizioni storiche e il nostro “savoir faire” e la tecnologia per migliorarne la produzione senza stravolgere il prodotto. Dunque, se noi lo facciamo qui, pur per quanto buono possa essere, già manca qualcosa, anzi, più di qualcosa! I prodotti italiani sono strettamente radicati nel territorio, è anche questo che ne fa la loro forza».
Quali sono i prodotti che vanno per la maggiore?
«Il vino è sicuramente al top. Quasi la metà del miliardo di dollari di esportazioni italiane in Canada è costituito dal vino. Il secondo prodotto più importato in Canada è l’olio d’oliva ma deve battersi con tanti paesi che spacciano il loro olio per italiano. Il formaggio è la nostra terza voce d’esportazione. I formaggi italiani sono i più venduti in Canada dopo quelli Usa. L’Italia è il primo fornitore mondiale del Canada per quanto riguarda olio d’oliva, aceti, panettoni, acciughe, castagne, vermouth e vini aromatizzati. È il secondo fornitore mondiale per formaggi, pasta, acque minerali, pomodori conservati, prosciutti e salumi, oli vegetali non d’oliva. È il terzo fornitore mondiale per vini e bevande analcoliche, funghi e altro. Abbiamo una posizione preminente nel mercato canadese ma possiamo fare di più. Come? In due modi: aiutare le nostre aziende, che stanno facendo un grande lavoro per quanto riguarda la qualità, a trovare la strada giusta per esportare i loro prodotti. Il secondo è di cercare di rendere più consapevoli e informati i consumatori: attenzione a quello che comprate, se volete mangiare italiano comprate italiano, forse costa un po’ di più ma la qualità vale sicuramente il prezzo».