Intervista con Emilia Liana Falcone, specialista delle malattie infettive e ricercatrice presso l’IRCM
Nata a Montréal da genitori d’origine italiana, di Cleto (Cosenza), il padre, e di San Pietro Infine (Caserta), la madre, Emilia Liana Falcone ha un curriculum scientifico impressionante che l’ha portata dalla collaborazione con il Dr Anthony Fauci, l’immunologo più famoso del mondo, alla direzione di una importante unità di ricerca sul microbioma presso l’Institut de Recherches Cliniques de Montréal.
Specialista delle malattie infettive presso lo CHUM, il Centro Ospedaliero dell’Università di Montréal, ricercatrice, e titolare della Cattedra di ricerca del Canada sul ruolo del microbioma nell’immunodeficienza primaria, la Dott.ssa Falcone dirige anche la Clinica Post-Covid di Montréal che ha aperto le porte il 12 febbraio scorso.
In realtà la Clinica è il “frutto” di un lavoro iniziato un paio d’anni prima quando la Dott.ssa Falcone ha cominciato a lavorare per l’IRCM. «Quando sono arrivata il mio programma di ricerca – spiega – era incentrato sul ruolo del microbiota ovvero le comunità di batteri che vivono nel corpo, nel mio caso più specificamente quelle che vivono nell’intestino, ed ho studiato il loro impatto sulle complicazioni infiammatorie nel contesto di pazienti che hanno delle carenze del sistema immunitario. Il programma di ricerca all’IRCM ha il vantaggio di unire il lato clinico a quello di laboratorio.
Con l’inizio della pandemia, avendo già lavorato sul problema delle complicazioni infiammatorie nel contesto di pazienti immunodeficienti, è risultato subito evidente a nostro avviso che i pazienti avrebbero potuto sviluppare in alcuni organi delle complicazioni infiammatorie a lungo termine. Ci siamo allora posti come obiettivo quello di capire quali potessero essere le complicazioni che possono sopraggiungere in seguito ad un’infezione da Covid-19 e da cosa sono causate, per sapere poi come trattarle.
Così è nata la Clinica post-Covid di Montréal, un progetto unico perché, anche se in Canada ne esistono altre, la nostra unisce veramente la valutazione clinica esaustiva del paziente al protocollo di ricerca. Abbiamo una piattaforma per i test-covid e abbiamo creato una bio-banca di campioni dei pazienti, tutto questo rende molto stretto e fluido il rapporto tra clinica e laboratorio».
Chi sono i “clienti” della clinica post-Covid?
«Tutte quelle persone che soffrono dei postumi del Covid-19. La nostra missione è quella di offrire le cure più adatte al loro caso e di raccogliere più dati possibili per la ricerca, per capire meglio questa malattia che è ancora poco conosciuta. Nella prima settimana di attività – afferma la ricercatrice – abbiamo ricevuto più di 350 tra telefonate ed e-mail. Quando una persona ci contatta c’è un percorso da seguire. Per prima cosa devono riempire da casa un questionario epidemiologico. In seguito vengono in clinica per un secondo questionario medico più approfondito e per fare dei prelievi di sangue, di saliva, di urine e di feci.
A questo punto il paziente può essere valutato da un medico e subire altri esami. Naturalmente i risultati dei test clinici possono rivelarci varie situazioni. A partire da tuttti questi dati si determina se il paziente ha bisogno di valutazioni ancora più approfondite o se ha bisogno di essere riferito ad uno specialista in rapporto alla sua complicazione. I sintomi post-Covid possono essere tanti e durare anche più mesi: stanchezza, mancanza di energia, di concentrazione, di fiato, dolori muscolari, insonnia, depressione, ansia. La stanchezza, ad esempio, può essere causata da diverse cose: insonnia, anemia ma anche problemi cardiaci o polmonari».
Come sta andando a suo parere la vaccinazione?
«Credo si stia facendo il meglio che si possa fare per cercare di vaccinare il maggior numero possibile di persone il più rapidamente possibile, compatibilmente con le dosi di vaccino a disposizione. In base agli studi attuali l’intervallo ottimale tra le due dosi di vaccino dovrebbe essere di un mese. Sono in corso ulteriori studi per capire fino a che punto sia efficace andare oltre questo limite di tempo. Possiamo dire però che al momento è meglio somministrare una dose al maggior numero possibile di persone perché ciò offre, comunque, una certa protezione».
L’esperienza americana
Dopo aver frequentato l’Università McGill, la Dott.ssa Falcone ha proseguito i suoi studi in Medicina interna al Tufts Medical Center di Boston e poi si è specializzata in malattie infettive al National institute of Health, a Bethesda (Maryland). In seguito ha lavorato presso il National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) diretto da Anthony Fauci, dove ha passato 9 anni circa nel laboratorio di Steven Holland, direttore scientifico di tale Istituto. Contemporaneamente ha ottenuto un’ulteriore specializzazione in malattie infettive presso l’Università di Cambridge, in Inghilterra.
Emilia Liana Falcone conosce personalmente il dottor Fauci: «È una persona che si dedica totalmente al suo lavoro, una persona intelligente e appassionata perché ci vuole una grande passione per fare il lavoro che fa, 7 giorni su 7, 24 ore su 24. È un grande medico, un grande ricercatore ma anche un ottimo comunicatore. Il suo ruolo è stato cruciale durante la pandemia fungendo da “ponte” tra la medicina, la ricerca e la comunicazione ai cittadini».
Le figlie, le radici italiane
A causa dei suoi molteplici impegni, la Dott.ssa Falcone non ha molto tempo libero a disposizione. «Ma è chiaro – afferma – che quando non lavoro mi dedico alle mie due figlie di 2 e 5 anni. È una priorità. Il mio ruolo è di mostrare che è possibile essere allo stesso tempo tanto una buona madre che un buon medico e una buona ricercatrice. Voglio che comprendano che queste possibilità siano sempre aperte e che non debbano scegliere tra carriera e famiglia.
Per me, inoltre, è importante mantenere le nostre radici. Mio marito è americano ma la madre è d’origine siciliana. A casa ho sempre parlato italiano, ma più che italiano dovrei dire il dialetto, con i nonni che non parlavano altre lingue, e con i miei genitori, Benedetta e Alfonso. Mia madre – sorride Liana – parla in italiano soprattutto quando si arrabbia! E qualche volta – aggiunge scherzando – succede la stessa cosa con le mie figlie! Quando saranno più grandi voglio mandarle alla scuola d’italiano del sabato come ho fatto anch’io quando ero più piccola. Vogliamo assolutamente mantenere le nostre origini».
E, a proposito di origini, il discorso non può non finire in cucina, una cucina al 100% italiana. Il piatto preferito? «Cerco di fare attenzione all’alimentazione – risponde -soprattutto in un contesto di pandemia ma il piatto preferito sono le polpette di mia madre e le lasagne di zia Caterina, la sorella di mia nonna. Fa delle lasagne incredibili, fa la pasta lei stessa con un’attenzione e una delicatezza straordinarie, mi ricorda mia nonna, una pura delizia!». Che il “segreto” della ricerca scientifica risieda tra una sfoglia e l’altra della lasagna di zia Caterina?